Viviamo in un tempo in cui l’uso di sostanze è più diffuso che mai.
Non solo non è scomparso, come la cosiddetta “guerra alla droga” prometteva, ma si è
trasformato, capillarizzato, normalizzato.Se un tempo il consumo era concentrato nelle fasce più marginalizzate della popolazione, oggi attraversa contesti eterogenei: festival, abitazioni private, spazi di lavoro, ambienti
cerimoniali e spirituali. Eppure, le istituzioni continuano a osservare il fenomeno con le lenti del passato.
Quando il governo parla di droghe, lo fa ancora evocando la figura del “tossicomane”: il deviante, il fragile, l’irresponsabile.
È come se il discorso politico e istituzionale fosse rimasto intrappolato negli anni Ottanta,
quando la paura era lo strumento principale per controllare il comportamento deviante, attraverso punizioni e stigma. Quella lente moralista e giudicante, alla base del paradigma proibizionista nega la realtà sociale e psicologica del consumo.
Produce invisibilità, colpa e distanza e in questo modo, paradossalmente, non riduce il
danno: lo moltiplica.
Le istituzioni, irrigidite dalla paura e da interessi elettorali, faticano a riconoscere ciò che gli
operatori del settore vedono ogni giorno: che il consumo è un fenomeno complesso e mutevole, e che la risposta non può più essere il solo controllo.
La “guerra alla droga” ha fallito sotto ogni profilo: non ha ridotto i consumi, non ha tutelato
la salute pubblica, non ha contrastato i traffici.
Ha solo moltiplicato lo stigma, riempito le carceri e svuotato i servizi territoriali.
In Italia, la legge 309/90 resta una delle più punitive d’Europa: confonde l’uso personale
con lo spaccio, colpisce le fasce più fragili e lascia senza strumenti chi vorrebbe
intervenire con buon senso e umanità.
La politica, anziché aggiornare le proprie politiche, preferisce spettacolarizzare il
problema, basti pensare all’uso di figure mediatiche come Brumotti, parlando di
“sicurezza” invece che di salute, di “degrado” invece che di relazione.
È una strategia che funziona sul piano del consenso, ma fallisce su quello umano.
Gli operatori dei servizi di RdD e di RdS vivono ogni giorno la frustrazione di lavorare in
contesti che non possono nominare ciò che realmente vedono: realtà in trasformazione,
dove il consumo è parte della vita sociale e dove la cura passa sempre più attraverso la
relazione e la consapevolezza.
Eppure, non siamo senza modelli, altri paesi hanno scelto di guardare il fenomeno con
occhi nuovi.
In Portogallo, la depenalizzazione ha aperto la strada a un approccio sociale e sanitario:
non è aumentato l’uso, ma sono diminuite le morti, i contagi e le incarcerazioni.
In Svizzera, le stanze del consumo hanno ridotto mortalità e infezioni, restituendo dignità e
sicurezza alle persone; la distribuzione controllata di eroina ha permesso a molti di vivere
in condizioni più stabili e non doversi rivolgere al mercato nero.
Negli Stati Uniti, pur con contraddizioni, si sperimentano modelli di cura e di integrazione
psichedelica che mettono al centro la comunità e la consapevolezza.
E in Italia?
Di per se però il vero problema non è la droga: è il rifiuto di guardare in faccia la
complessità umana che essa porta con sé.
Il drug checking è ancora ostacolato, le politiche restano punitive, e la scena pubblica
preferisce esibire retate e telecamere invece di ascoltare le strade.
Aprire spazi di consumo sicuro, come le Stanze del Consumo già operative in molti paesi,
sarebbe un atto di rivoluzione: non significa favorire l’uso, ma riconoscere la realtà.
Significa mettere al centro la persona, non la sostanza.
Di per se però il vero problema non è la droga: è il rifiuto di guardare in faccia la
complessità umana che essa porta con sé.
Così il consumo di oggi, in molte sue forme, racconta anche qualcos’altro.
Non è solo fuga o dipendenza: è spesso ricerca di connessione, di presenza, di
esperienze trasformative. È il bisogno di ritrovare significato, di incontrarsi in modo più
autentico. È qui che il paradigma psichedelico della cura entra in scena: non come moda o terapia di
nicchia, ma come proposta culturale.
Per esempio, nei cerchi di integrazione psichedelica, le persone si incontrano dopo
esperienze con sostanze o stati non ordinari di coscienza per parlare, ascoltare e dare
forma a ciò che hanno vissuto.
La psichedelia pubblica è un’idea, un sogno, una nuova lente per guardare la coscienza e
la società: non più un intervento dall’alto, ma un’esperienza condivisa tra pari.
Per esempio, nei cerchi di integrazione psichedelica, le persone si incontrano dopo
esperienze con sostanze o stati non ordinari di coscienza per parlare, ascoltare e dare
forma a ciò che hanno vissuto.
Non c’è un terapeuta che interpreta, né un protocollo rigido: possono esserci facilitatori,
psicologi o counselor, ma il loro ruolo non è direttivo.
Il gruppo stesso diventa cornice e contenitore, spazio di parola e di cura reciproca.
Si parte dal racconto — un gesto semplice e potente.
Raccontare significa integrare: trasformare un vissuto intenso in qualcosa di comunicabile,
condivisibile, comprensibile. E l’ascolto diventa parte della cura: ognuno riconosce sé stesso nei frammenti dell’altro, e la conoscenza nasce dal sentirsi tra pari, dove l’esperienza è la forma più autentica di
sapere.
All’interno del cerchio si impara che nessuna esperienza è “sbagliata”: anche il caos, la
paura e la confusione trovano senso se trovano spazio e parola.
I sitter e i facilitatori non controllano: stanno accanto, offrono presenza, contenimento,
radicamento.
Non interpretano, ma custodiscono.
Il loro ruolo non è quello del potere o della guida spirituale, ma del testimone che permette
alla verità dell’altro di emergere.
Il cerchio diventa uno spazio in cui l’esperienza psichedelica non va giustificata, ma
onorata.
Un luogo dove il “viaggio” diventa conoscenza e riappropriazione di sé.
In questa prospettiva, la cura non è più un atto individuale, ma una pratica collettiva di
responsabilità e ascolto. Una salute pubblica che si costruisce nella relazione, nella quale
ogni persona è insieme soggetto e risorsa, parte di un ecosistema di cura più ampio.
I cerchi di integrazione incarnano, in piccolo, il modello di riduzione del danno che
vorremmo vedere nelle politiche pubbliche:
un modello capace di accompagnare invece di controllare,
di ascoltare invece di punire,
di fidarsi delle coscienze invece di reprimerle.
La psichedelia pubblica, in fondo, parla di questo: di una cura comunitaria della coscienza,
in cui la trasformazione individuale diventa atto politico e culturale.
Un modo di ricordarci che nessuna esperienza interiore è “troppa”, e che la vulnerabilità
non è un difetto, ma una soglia: un punto d’incontro con l’altro.
Non si tratta di idealizzare le sostanze, ma di comprendere cosa rivelano: il bisogno di
riconnettere corpo, mente e comunità e il desiderio di trasformazione, di espansione della
coscienza, è parte della natura umana.
Parlare oggi di psichedelia pubblica significa parlare di un passaggio epocale.
Da un modello centrato sul rischio a uno centrato sulla relazione, da un’idea di salute
come obbedienza a un’idea di salute come partecipazione.
Non si tratta di idealizzare le sostanze, ma di comprendere cosa rivelano: il bisogno di
riconnettere corpo, mente e comunità e il desiderio di trasformazione, di espansione della
coscienza, è parte della natura umana.
Reprimerlo non lo elimina: lo rende solo più pericoloso, più isolato, più muto.
La realtà ci chiede di fare un passo in più: superare la paura, uscire dalle logiche punitive,
restituire dignità all’esperienza umana in tutte le sue forme.
La psichedelia pubblica non è un sogno ingenuo, ma una prospettiva possibile: una cultura
della cura che nasce dalla relazione, dalla responsabilità reciproca, dalla libertà di
coscienza.
È tempo di riconoscere che la trasformazione non è nelle sostanze, ma in noi:
nella capacità di guardare diversamente, di ascoltare, di fidarci del fatto che, se
accompagnata con consapevolezza, la coscienza non è un pericolo, ma una risorsa.
Giorgia Gagliardi- socia Itanpud